Aborto in Costituzione, segno di uno Stato tiranno
Di Tommaso Scandroglio
(Fonte lanuovabq.it)
Uno Stato che crede di poter sopprimere la vita dei più indifesi ha i tratti, come spiegava Giovanni Paolo II, di «un sostanziale totalitarismo» anche se rispetta le «regole democratiche». Così il diritto cede il passo alla volontà del più forte.
Marzo 1995, Giovanni Paolo II pubblica l’Evangelium Vitae. Marzo 2024, la Francia inserisce in Costituzione il diritto d’aborto. La prima al mondo a farlo. Ventinove anni dopo si avvera quanto scritto da papa Wojtyła nell’enciclica dedicata alla difesa della vita innocente. Annotava infatti il santo pontefice: «L’originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria — della popolazione. È l’esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato: il “diritto” cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull’inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la “casa comune” dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l’interesse di alcuni».
Proseguiva Giovanni Paolo II: «Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l’aborto o l’eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l’ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: “Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?” (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno di studio su “Il diritto alla vita e l’Europa”, 18 dicembre 1987). Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un’autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale. Rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà» (20).
Queste parole sembrano cucite addosso alla recente decisione del Parlamento francese. In esse evidenziamo alcuni snodi concettuali. Il primo: il parlamentarismo ha sostituito la verità. Quest’ultima è messa ai voti. Il riconoscimento della verità è stato scalzato dall’attribuzione della verità. Il concepito, con la sua umanità e personalità, non è un dato di realtà da riconoscere e da cui promanano obblighi morali che in modo analogo devono essere riconosciuti, ma una realtà da occultare tramite una sua simulazione: l’essere umano diventa un grumo di cellule. Occultato l’omicidio, si riconosce come verità giuridica e morale l’aborto.
Il democraticismo, per opporsi alla realtà, non può che imporsi perché questa da sempre si ribella. Ecco il secondo passaggio: ogni decisione democratica che non rispetta la verità necessariamente diviene espressione tirannica. «Auctoritas, non veritas facit legem» (T. Hobbes, Leviatano, II, 26). L’autorità, non la verità fa la legge. Non più ius quia iustum – diritto perché giusto – bensì ius quia iussum – diritto perché così è stato ordinato, deciso. È il capovolgimento della gerarchia delle due principali facoltà umane: intelletto e volontà. Non c’è più l’intelletto che scopre il reale – il nascituro è persona – e muove la volontà di conseguenza – devi rispettare la sua vita – ma l’inverso. Ciò che desidera la volontà – uccidere il figlio in grembo – l’intelletto lo ratifica come buono – abortire è un diritto. Non più delimitata dal limes della realtà riconosciuta dall’intelletto, la volontà esonda, tracima, sconfina nel potere assoluto, cioè absolutus – sciolto da ogni vincolo, degli uni contro gli altri. È la legge della giungla ma approvata in parlamento, è il «bellum omnium contra omnes» del già citato Hobbes (cfr. De Cive, prefatio): la guerra di tutti contro tutti. E chi vince? Il più forte, non il più giusto. E dunque nel caso dell’aborto vince l’adulto contro il bambino, colui che è già sviluppato contro chi è ancora in via di sviluppo (e lo sarà anche dopo nato), colui che può attualizzare alcune capacità contro chi non è ancora in grado di farlo, colui che è sano contro il malato.
Lo Stato di diritto si involgarisce nello Stato di potere; la legge si degrada in prevaricazione. È il diritto belluino. La traduzione di diritto in latino è ius. Lo ius è “il suo”, ciò che appartiene ad un soggetto o per vocazione naturale o per attribuzione collettiva (statale diremmo noi oggi). Agevole comprendere ora il significato della radice della parola iustitia, la virtù che impone di dare a ciascuno il suo. Il concepito reclama il diritto alla vita, perché suo, e quindi il corrispettivo dovere erga omnes del rispetto e tutela della sua esistenza. Ma l’epoca attuale è segnata dalla negazione dei diritti naturali, i diritti nativi che nascono appena viene ad esistenza l’essere umano, annientati dai diritti artificiali perché prodotti dall’uomo per la soddisfazione dei desideri artefatti dei più violenti. È il diritto muscolare che stritola l’indifeso diritto naturale del concepito.
E dunque, nel momento in cui si è elevato l’aborto a diritto costituzionale, si è decretata la morte del diritto perché si è dichiarato come suprema esigenza da tutelarsi giuridicamente un delitto, l’esatto contrario del diritto. «Il “diritto” cessa di essere tale», ci diceva Giovanni Paolo II. Una legge umana «se in qualche cosa è contraria alla legge naturale, non è più legge ma corruzione della legge» gli fa eco Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2 c.).
Uno dei risultati più deflagranti della decisione di ammantare di costituzionalità il delitto di aborto è quello della disintegrazione del consesso sociale e dello sprofondamento in una guerra civile sì invisibile, ma presente. E, infatti, se c’è guerra ai bambini non ancora nati come si può parlare di pace sociale? È una pace apparente perché ogni pochi minuti un innocente viene ucciso. L’aborto è l’esito di e insieme produce una società violenta, barbara e anarchica che alza la mano sull’indifeso e su chi vuole difendere l’indifeso.
La folla festante che l’altro giorno danzava sotto la scintillante Torre Eiffel, sulla cui struttura campeggiava la scritta My body, my choice, ballava sopra la propria rovina, sopra la propria tomba, gioiva inconsapevole per la propria condanna a morte. Perché quell’art. 34 della Costituzione, la cui modifica è stata scritta con il sangue dei bambini, è l’epitaffio della società occidentale. I francesi non hanno solo decretato la morte dei propri figli, ma anche la propria.